Definirei la cura come una postura che dovrebbe essere parte costitutiva di ognuna e di ognuno. Cura vuol dire desiderare il meglio per sé, il meglio per le persone che incontriamo e con cui stiamo, il meglio per l’ambiente che ci circonda. Desiderare il meglio e, ovviamente, impegnarsi a realizzarlo. Il meglio per sé, il meglio per gli altri e il meglio per il contesto che ci circonda, sono strettamente interconnessi. Se mi curo degli altri e del mio ambiente mi curo anche di me. E solo se mi curo di me posso curare anche chi – e ciò che- mi circonda.
Continuiamo l’intervista con Eleonora Pedron – pedagogista che si occupa di formazione e ricerca, di supporto e consulenza a minori, adulte/i, famiglie e insegnanti. Dopo aver riflettuto con lei sul significato del prendersi cura dell’altro, entriamo più nello specifico per capire che ruolo può avere la figura di babysitter per le famiglie oggi.
Ogni persona è unica e cambia costantemente, per questo chi si prende cura deve mantenere un atteggiamento aperto e accogliente nei confronti della specificità e della dinamicità dell’altra persona. In questo senso la cura deve essere capace di stare nell’imprevisto, quasi aspettarselo e cercarlo, non dare mai nulla per scontato, domandarsi sempre se i significati che attribuiamo noi alle cose e agli eventi corrispondono a quelli dell’altra persona. Questo atteggiamento ci salva in primo luogo dal pregiudizio, ma soprattutto ci rende possibile costruire una relazione di cura rispettosa, attenta e capace di lasciare l’altra, l’altro, libera/o di seguire il suo cammino esistenziale. Al corso per babysitters qualificate e operatori/trici dei servizi di conciliazione si è pensato di fare una giornata di formazione dedicata all’argomento della cura, ma questa viene ripresa costantemente in ogni singolo modulo, perché senza cura non ci può essere l’educare. Chi si prende cura, in questo senso, è colei/colui che accompagna e che si impegna a dare sostegno all’altra persona per perseguire al meglio il suo cammino esistenziale, a partire dalle sue possibilità e dai suoi desideri. Questo non vuol dire cadere nel relativismo, men che meno vuol dire che non serve una formazione! Al contrario, come ho scritto sopra, è fondamentale dotarsi di conoscenze sia specifiche che generali per “essere pronte/i” ad accogliere la complessità dell’altra persona. Anche l’esperienza deve diventare un sapere, attraverso la consapevolezza e la riflessione. Infine è importantissimo un profondo lavoro di consapevolezza di sé, apprendere ad osservarsi e a sentirsi, a percepire e a riflettere sul proprio agire, pensare, sentire, perché la relazione professionale di cura richiede uno sguardo costante non solo rivolto all’altro, ma anche a sé.
Tutto questo con un’unica ma importante raccomandazione: tutto ciò che conosciamo, che sentiamo e che crediamo deve rimanere flessibile, in altre parole deve sapersi mettere in dubbio di fronte alla specificità della persona che abbiamo di fronte. Per questo si dice che chi si prende cura deve avere un atteggiamento umile oltreché rispettoso. Un atteggiamento umile è quello che è sempre disposto a imparare ancora, a stare nell’incertezza, a mettersi in discussione.
La cura richiede elementi ineliminabili, quindi validi sempre: l’accoglienza dei vissuti dell’altra persona, l’empatia, la disponibilità, la responsività, l’apertura e la flessibilità, l’attenzione, la riflessività, il rispetto, la cura di sé, la fiducia… Insomma tutti quegli elementi che consentono un’autentica apertura alla specificità e all’unicità dell’altra persona. Questo costituisce una postura di base, però poi, di fronte a ognuna e ognuno, il prendersi cura avrà diverse forme, modi, e farà ricorso a diversi “strumenti” (metodi, tecniche, conoscenze, idee, pratiche, parole…): quelli che meglio si possono prestare per il nostro lavoro con le caratteristiche peculiari di chi accompagnamo.
Sicuramente oggi le famiglie hanno maggiore bisogno di supporto: per la maggior parte delle persone, anche quando in coppia, lavorare entrambi è una necessità. In un passato recente la babysitter si chiamava al bisogno, magari quando i genitori dovevano uscire la sera senza portare con sé le figlie e i figli e i parenti e gli amici non potevano occuparsene. Oggi invece è molto più frequente la richiesta di personale che si occupi con continuità dei/delle minori spesso con un orario fisso settimanale. C’è da aggiungere che forse questo è un fattore legato anche a un maggiore isolamento delle famiglie. Accade spesso che i nonni, i primi a cui di solito si affidano i figli e le figlie, abitino distanti. Anche i rapporti di vicinato, su cui una volta si poteva fare affidamento in queste occasioni, sono cambiati. È aumentata anche la richiesta di persone disponibili ad affiancare i bambini e le bambine nello svolgimento dei compiti. I genitori che lavorano spesso, vedendo il loro tempo libero con i figli e le figlie limitato al fine settimana, desiderano potersi dedicare a loro senza l’impegno dei compiti scolastici. Seppure questo pensiero sia comprensibile, è utile ricordare ai genitori che i compiti, oltre a mantenere allenati gli alunni, hanno anche la funzione di coinvolgere i genitori su quello che i figli e le figlie fanno a scuola. Seguire i bambini e le bambine quando fanno i compiti a casa è uno dei tanti tempi e
contesti in cui si trasmette cura. Cura come interesse per il loro lavoro, per quello che fanno quando i genitori non sono con loro. Certamente la responsabilità dei compiti va lasciata alle/ai bambine/i, si tratta solo di affiancarli, stare loro vicini, esserci per loro. È quindi giusto che i/le babysitters si occupino anche dei compiti ma è bene che questo non porti i genitori a staccarsi completamente da quello che i figli fanno a scuola. In generale, di fronte a una maggiore fatica e a un minore tempo libero dei genitori, è importante che i/le babysitters si prendano cura dei bambini e delle bambine stando comunque attente/i ad aiutare i genitori a non delegare funzioni e ruoli, perché questo comporterebbe una perdita per la loro presenza genitoriale.
Purtroppo molti dei lavori di cura sono visti come “lavori non lavori”. Non solo i/le babysitters ma anche le educatrici e gli educatori, talvolta anche le maestre e i maestri, sentono parlare del loro lavoro come un lavoro “facile”, solo piacevole, quasi un hobby. Questo ha a che fare con la vicinanza di questi lavori alla quotidianità, alla cura materna. Come dicevo nella scorsa intervista, questo pregiudizio ha anche una radice culturale antica che ha a lungo tolto valore e importanza al lavoro di cura che perlopiù le donne svolgevano nel contesto domestico. I lavori di cura con le bambine e i bambini, invece, richiedono molta energia e un altissimo impegno. Quando svolto da professioniste e professionisti richiede molta competenza, come in tutti i lavori di responsabilità. Inoltre richiede un grosso lavoro su di sé, cosa che altri profili professionali qualificati e valutati senza indugio come “lavori” non necessariamente richiedono.
Penso che i parenti siano una risorsa importantissima per la cura dei figli. Lì si gioca la cura più “intima” e “spontanea”, preziosa proprio così com’è. Babysitters, educatrici, educatori possono aggiungersi al gruppo di adulte/i educanti per dare un contributo in più all’educazione dei bambini e delle bambine. Le persone costruiscono la loro identità a partire dalle relazioni. Più relazioni si hanno, più alternative si avranno per costruire liberamente la propria identità. Una persona esterna alla famiglia poi, ha necessariamente un occhio diverso e meno coinvolto emotivamente. Le/i professioniste/i dell’educazione non lavorano solo con la bambina/il bambino, ma con l’intero nucleo famigliare: uno sguardo esterno può essere utile alla famiglia per rivedere certe dinamiche e certe routine. In famiglia, certi comportamenti e certi vissuti sono così routinari da essere dati per scontati. È difficile rivedersi senza uno sguardo esterno che aiuta e fa da specchio. Questo è un contributo essenziale del/della professionista della cura.
Ci sono tanti, piccoli e grandi motivi che mi hanno fatto e mi continuano a fare scegliere questo lavoro e questo interesse di studio e ricerca. La mia storia personale, quella professionale e formativa, le attitudini, i miei valori. Mi limito qui a dire solo alcuni elementi importanti che mi hanno portata a scegliere questa strada professionale: ho sempre amato circondarmi di persone e ascoltare le loro storie, fin da piccola. Ho imparato presto che non si può mai immaginare di conoscere pienamente l’altra/l’altro: se si ascoltano davvero le storie degli altri sono sempre occasione di incanto. Mi piace stare con le persone ma mi piace anche prendermene cura, per tanti motivi, anche qui cito solo i più importanti: è un lavoro per me ricco di significato, ed è un lavoro vicino alla vita, impossibile da alienare da essa. È un lavoro che costringe a un continuo lavoro su di sé: è faticoso e richiede molta energia ma ha due lati positivi fondamentali: non solo non mi annoio mai, ma ho il guadagno aggiunto di una crescita personale oltreché professionale continua. Infine un mio valore. Questo lavoro così aderente alla vita mi piace perché mi consente di sentire di collaborare nel mio piccolo per un buon futuro, delle singole persone e delle loro relazioni. Penso sia da qui che si possa partire per una migliore civiltà.
Eleonora Pedron
eleonora_pedron@yahoo.it
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