Mentre nelle corsie d’ospedale si combatte (e si vince!) la guerra vera, quella che inizierà subito dopo e che coinvolgerà imprese e lavoratori è appena cominciata. A meno che non si producano beni necessari sul campo di battaglia – mascherine, tamponi faringei, alcool etilico, glicerolo, coraggio e tenacia – il nostro dashboard ci starà mostrando numeri impietosi: costi fissi invariati, zero alla voce vendite, e, se siamo fortunati, poco più di zero alla voce ordinativi.
Quando la crisi è così generalizzata e appare il cigno nero che altera il ciclo economico in modo imprevedibile, la soluzione necessaria – e forse l’unica possibile – è un’imponente iniezione di spesa pubblica per sostenere da prima il reddito delle famiglie e poi per far fronte a liquidità e investimenti delle imprese. In sintesi si aumenta il debito. Ma chi pagherà questo debito, che a noi italiani appare già molto alto? Nel 1945 la Germania aveva accumulato un debito di guerra superiore al 100% del suo PIL. Fu a più riprese ridotto per rinuncia degli Stati creditori tra il 1953 e il 1991, quando si arrivò alla definitiva estinzione anche per sostenere il difficile percorso di riunificazione delle due Germanie. Non fu certo un atto di “buonismo” ante litteram, ma il risultato della lungimiranza di statisti quali De Gasperi, Churchill, Auriol e, dall’altro lato del tavolo, Adenauer che convenirono su quanto una Germania impoverita e schiava del debito fosse una debolezza per tutti: Statisti per l’appunto. L’unica vera scontenta, fu forse l’avidità di qualche speculatore, perché si sà, è più facile accumulare guadagni sul debito che investire in capitale di rischio a sostegno delle imprese.
A fine 2019, l’Italia aveva un rapporto debito/PIL del 135%, garantito da una ricchezza reale degli italiani che è circa quattro volte superiore, in larga parte costituita, si badi, da proprietà immobiliari. A paragone, il debito/PIL della Germania era inferiore al 60% (in discesa), quello dell’Olanda era di poco superiore al 50% (in discesa) mentre quella della Grecia superava il 180% (stabile). Ma a questo punto, tutte queste misure, compresi lo spread e gli indici di borsa dovrebbero perdere molto del loro significato, visto che il “botto” si preannuncia fragoroso e il nostro rapporto debito/PIL arriverà, secondo molti analisti, al 160/165% a fine 2020 per poi aumentare ancora nel 2021 e non è che le altre economie possono pensare di far meglio. Aspettando che i problemi delle politiche di lungo periodo siano pianificate dai successori di De Gasperi e Churchill – speriamo bene – descrivendo probabilmente nuovi equilibri continentali e mondiali, a noi non resta che concentrare le nostre attenzioni alla riorganizzazione e ripartenza della nostre aziende, sapendo che ci sarà un “dopo-Covid” esattamente come ci fu il “dopo-guerra” nel 1945. Un prima e un dopo.
Visto che nessuno di noi ha la sfera magica e l’economia, ahimè, è tutt’altro che una scienza esatta, provo a dare tre mie personali suggestioni (e alcuni auspici) sui mood da economia e organizzazione aziendale del “dopo-Covid”.
“le dimensioni contano eccome”. L’impressione che la dimensione media delle imprese italiane (ma non solo) fosse troppo piccola per far fronte a trasformazioni epocali era visibile già da molti anni: nel post-Covid assumere dimensioni che consentano di destinare risorse importanti alla R&D (almeno il 5% dei ricavi) diverrà un obbligo. In carenza di finanzia di terzi, o volendone fare a meno, mi immagino una preferenza per operazioni di M&A che avvengono più per fusione con scambio di quote e azioni che non per acquisizioni “ostili”: meno soldi ma più voglia (e necessità) di collaborazione. Evviva!
“formazione, formazione, formazione”. Accidenti alla formazione! Assodato che tra i fattori che distinguono, da sempre, un’azienda sovraperformante e una sottoperformante c’è l’investimento sul personale e il relativo aggiornamento delle competenze, ciò che conterà sarà valutare l’efficacia della formazione nel medio periodo in rapporto ai risultati economici, o di posizionamento, aziendali. Serve impratichirsi con gli strumenti di valutazione e scegliere, tra le tante proposte e modalità, quella più efficace. E anche per questo serve, ebbene sì, formarsi!
“ci si sposterà meno volentieri”. Nel bene o nel male, sarà l’effetto che segnerà questa pandemia e il distanziamento sociale diverrà più un’abitudine che una regola, più o meno com’è successo con l’uso del casco dal 1986 ad oggi. Jeremy Rifklin prefigura che anche stadi, teatri, scuole e tutte le manifestazioni che determinano un assembramento dovranno essere ripensate: chi mangerebbe oggi in un bistrò a Notre Dame? Questo non vorrà certamente dire che bisognerà smettere di cercare un allargamento dei mercati, tutt’altro. Nell’ipotesi di una decisa virata verso il glocal, per l’Italia potrebbe essere una grande occasione. Ma sarà però necessario dominare le tecnologie dell’informazione (impareremo mai a fare una videoconferenza?) e gli strumenti di tracciatura “agili” dei movimenti merce oltre che del denaro come ad esempio le blockchain.
Insieme, con coraggio e tenacia, ce la faremo.