Mentre lentamente si passa da una narrazione della guerra a quella della cura (che sarà anch’essa inevitabilmente lenta) vale la pena ricordare le condizioni economiche in cui eravamo immersi a febbraio, già non particolarmente brillanti in termini di crescita.
Dall’introduzione dell’euro nel 1999, passando per la crisi finanziaria del 2008, seguito dagli scossoni al nostro debito pubblico del 2011 (lo spread a 500) fino ai giorni nostri, l’economia italiana, nel suo complesso, non ha conosciuto più una fase di crescita stabile e duratura. Sono almeno 21 anni. Nel frattempo abbiamo perso i biglietti della prima classe su tutti i treni partiti, come la digitalizzazione dei processi produttivi, l’avvento dell’automazione e degli effetti positivi della globalizzazione (ebbene sì, ci sono). Le responsabilità sono equamente ripartite tra una politica incapace di promuovere piani di lunga scadenza e aziende troppo piccole e sottocapitalizzate per competere sui mercati internazionali e investire in innovazione. Analisi impietosa, sommaria e pessimista? Forse sì, ma è per questo che il rilancio, l’effetto “cannone” che dovrebbe seguire ad un tonfo come quello che stiamo attraversando, potrebbe farci emergere in una condizione migliore di quella che abbiamo lasciato.
Prima dell’avvento dell’euro (la fissazione del cambio lira/euro a 1936,27) le nostre imprese più impegnate sull’export – quelle medie e grandi a dire il vero – potevano contare su l’effetto benefico della debolezza della lira: per un marco ci volevano 223 lire nel 1973 e 990 lire nel 1990. Una svalutazione complessiva del 77% in 27 anni. Quel 6% annuo di vantaggio monetario ha permesso di nascondere incapacità tecnologiche e limiti di produttività risultati poi evidenti nei successivi vent’anni, quelli privi di svalutazione. Uscire dall’euro o porre le condizioni per superare i gap di produttività e innovazione? Io opto per la seconda, ma è necessario approntare politiche che facilitino il recupero del gap tecnologico e di prouttività, anche per togliere fiato a chi ancora propone la soluzione più semplice. La crisi finanziaria del 2008 e il successivo attacco al nostro debito sovrano ha depresso sia i consumi interni che la capacità di risparmio delle famiglie italiane, a prezzi correnti rispettivamente del 10% e del 8%. Tutto ciò acutizzato da una sostanziale invarianza degli stipendi – con la conseguete perdita di potere d’acquisto -, dovuti in buona parte dalla progressiva riduzione di competitività – e quote di mercato – nei settori ad alto valore aggiunto (le tecnologie) per i motivi accennati sopra.
Nel 2019, solo il 10% delle imprese italiane ha realizzato più dell’1% del proprio fatturato con l’e-commerce contro una media europea del 17% e un 20% della Germania. E’ un indicatore, molto parziale, ma l’accelerazione che il commercio elettronico ha avuto negli ultimi due mesi è forse un segnale del possibile rimbalzo anche sui consumi interni. Soprattutto le piccole aziende si devono però attrezzare in fretta, perché la clientela è pronta e si rischia che i giganti calino l’asso piglia tutto. Capitali, inventiva e capacità manageriali sono gli ingredienti necessari.
Invetiva, capacità e visione sono qualità che le nostre imprese (e gli imprenditori) hanno già dato modo di possedere. Specie in passato. Negli anni sessanta in Olivetti erano un passo avanti a tutti, ma qualcosa è andato storto se adesso la Apple capitalizza 1,4 trilioni di dollari mentre il mio glorioso M24 ha valore solo nel settore del modernariato. Benetton e Esselunga negli anni ottanta erano anch’essi all’avanguardia internazionale: anche qui qualcosa è andato storto se adesso i campioni d’incasso sono Zara e Carrefour. I nostri campioni nazionali erano Olivetti e Fiat, ora sono Eataly e Luxottica. E tutti prodotti glocal. Non è poco, ma non è abbastanza.
Il Decreto Rilancio – al vaglio del Parlamento in questi giorni – potrebbe risultare una prima leva per far ripartire i consumi interni. Certo non si occupa di tratteggiare linee di sviluppo nel medio-lungo periodo: non facilita in modo deciso la mobilitazione dei risparmi degli italiani e l’intervento sul sistema scolastico e della formazione sembra più una toppa ad un buco bello grosso già ben prima del COVID. In altre parole: perché mai avremmo dovuto investire in formazione in un Paese che arretrava su lavorazioni a minor valore aggiunto?
Ora che tutto cambia e che nulla sarà più come prima, l’auspicio è che la visione politica parta dai fondamentali. Ne propongo due: facilitare l’apporto di capitale nelle imprese quale migliore allocazione dei nostri risparmi e sviluppare e incentivare un sistema formativo che si occupi dell’intero ciclo di vita delle persone come quello francese ad esempio.
In ogni caso, con coraggio e perseveranza, insieme ce la faremo.