Se un “servizio” esista, se porti risultati, se sia migliorabile
Il fenomeno dell’incubazione d’impresa è un tema che oggigiorno va diffondendosi e di cui capita frequentemente di sentir parlare. Come spesso accade, quando un termine viene molto utilizzato paradossalmente minaccia di perdere identità e di essere quindi sempre meno compreso in maniera unitaria.
Il rischio di un equivoco effettivamente c’è, per cui sarà meglio svelare subito che qui si tratta di sviluppo di idee, di pensieri e di progetti e del loro percorso fino alla trasformazione in imprese.
Cercando di evitare il più possibile di restare generici, pericolo che incorriamo largamente, si può affermare che la funzione principale degli incubatori è quella di sostenere la nascita e la crescita di start-up, in particolare quando queste si trovano nelle fasi di maggiore fragilità, ovvero la strutturazione e l’avvio delle attività (Giordano et al., 2015).
Ma cosa si vedrà fisicamente visitando un incubatore? Pur partendo tutti da questo intento comune, si sono strutturati luoghi anche molto diversi fra loro. Si possono riconoscere incubatori all’interno di parchi scientifici, università, sedi di imprese, centri per l’innovazione e così via.
Un’ulteriore evoluzione avviene quando alla parola incubazione si aggiunge l’attributo sociale. Abbiamo a che fare con un fenomeno che in Italia è ancora molto giovane, possiamo individuarne la nascita nel 2010. Anche qui le definizioni attribuite dalla letteratura non sono completamente in accordo fra loro. Si tratta certamente di una costola del fenomeno dell’incubazione tradizionale, che pone però l’enfasi non tanto su un determinato prodotto (ad esempio l’impresa sociale), quanto sulla finalità dei processi attivati. Questo scopo sociale si articola nella volontà di raggiungere gli obiettivi della promozione di uno sviluppo economico sostenibile e di una società più inclusiva. Nonostante queste realtà abbiano una storia di vita così recente, la portata del fenomeno è risultata essere alquanto significativa.
Dal 2010 in cui si contavano 2 casi di incubatori sociali, oggi annoveriamo almeno 19 soggetti spalmati su tutto il territorio nazionale. Nella città di Trento, possiamo individuare due casi in Trentino Social Tank nato nel 2014 e in Impact Hub Trentino del 2010. Lo sviluppo di questo fenomeno deve essere analizzato alla luce dei particolari movimenti che hanno segnato il settore dell’innovazione sociale nell’ultimo decennio. Uno tra i fattori che in Italia ha inciso direttamente nello sviluppo degli incubatori sociali è stato il “Decreto Crescita 2.0” (D.L. 221/2012), evento che denota una nuova attenzione posta su questi temi anche da parte del sistema politico. Altri elementi che in Italia hanno inciso sull’ampia diffusione di questi dispositivi sono l’aumento del numero di imprese sociali e il peso delle stesse sull’intero sistema economico, e ancora la sempre più diffusa cultura imprenditoriale all’interno del Terzo settore.
L’origine e gli impulsi dati complessivamente al fenomeno sono ora sufficientemente chiari. Ma si può dire che la soluzione ottenuta attraverso l’incubazione sociale sia stata adeguata alle richieste avanzate? La risposta va data considerando che questi sono gli anni nei quali si è discussa e finalmente avviata la riforma del Terzo settore. Alla luce di ciò, alcune questioni sorgono spontanee. L’incubazione sociale risponde alle esigenze di cambiamento che hanno portato alla necessità di mettere mano alla legislazione stessa? Essa è in linea con quanto è stato il prodotto della riforma?
Con la legge delega 106/16 ci si è concentrati su alcuni punti focali: la definizione degli enti del Terzo settore, il reperimento delle risorse economiche e materiali per gli stessi, lo strumento del Servizio Civile (che diviene Universale) e il rilancio e la razionalizzazione delle forme di supporto e rappresentanza del mondo del Terzo settore. Questi temi di discussione costituiscono l’impalcatura della legge. Alla base della stessa vi è la volontà di spingere gli enti del Terzo settore verso una maggiore ibridazione con il mondo del for profit, e, al contempo, la stretta necessità di lavorare sull’acquisizione di tutta una serie di competenze capaci di rinforzarne la cultura manageriale e, quindi, sulla loro capacità di autosostenersi.
Le realtà che avviano programmi di incubazione sociale o di innovazione sociale trovano in questo disegno un’aderenza piena. È emerso in maniera evidente che non esistono dei tipi puri, e tantomeno identici fra loro. Nonostante ciò, con i servizi proposti questi soggetti sono tutti in grado di sviluppare una maggiore vicinanza e conoscenza del territorio, e, in particolare, un monitoraggio continuo dei suoi bisogni. Questo è già un importante punto di partenza in linea con le esigenze del Terzo settore riformato.
Ma non finisce qui. Da una ricerca del 2017 effettuata su 13 incubatori sociali italiani (la popolazione totale al momento era di 19 soggetti) è emerso che essi sono agenti di trasformazione del Terzo settore, concretamente in linea con quanto richiesto dalla Riforma. Gli incubatori sociali sono di forte stimolo per l’innovazione, in quanto sviluppano nuovi sistemi di pensiero, aiutando a non ricadere in alcuni obsoleti ragionamenti che possono essere di ostacolo nel dare risposte ai nuovi bisogni manifestati dalla società.
Grazie alla loro capacità di tessere reti e alla necessità di modificare le proprie strutture di pensiero è imprescindibile una progressiva ibridazione con il mondo del for profit e uno sviluppo della cultura imprenditoriale prima molto poco presente all’interno del Terzo settore. Infine, la vera forza di questi progetti sta nello stimolo della capacità di empowerment dei partecipanti alle iniziative. Da una parte viene sicuramente offerto un servizio, ma dall’altra senza il mettersi in gioco di chi del suddetto servizio usufruisce,non sarebbe possibile ottenere alcun beneficio finale.
Queste realtà offrono quindi la possibilità di incubare nuove idee e progetti di impresa, ma al tempo stesso sostengono anche l’incubazione di un nuovo modo di ragionare nel Terzo settore.
Marianna Castellan – castellanmarianna@gmail.com