Tito Boeri, economista esperto in politiche per il lavoro ed ex presidente di INPS, ne è convinto: “le case degli italiani non sono luoghi di lavoro, sono troppo piccole, servono luoghi intermedi, che già esistono”. Non ha esplicitato di cosa si tratta, ma il riferimento è ai Remote Working Space. E le ragioni sono molteplici.
Jack Dorsey è l’amministratore delegato di Square (sistemi di pagamento on-line) e della più nota Twitter. L’annuncio – dato con un tweet immagino – è di quelli che segnano un prima e un dopo: “se lo vorranno, tutti i dipendenti di Square e Twitter, potranno lavorare da casa per sempre”. L’intento è quello di lasciare che ognuno trovi il miglior luogo dove essere più creativo. Gli headquarter di Twitter e Square si trovano nel centro di San Francisco, a pochi metri una dall’altro e a circa due miglia dai rivali di Facebook e dal celebre Financial District, dove operano i fondi che investono nella net economy. Sedi più operative e campus sono poi distribuiti per tutta la Silicon Valley, tra San Francisco e San Josè, dove sono concentrate le grandi corporation tecnologiche: tra le altre, Google, Microsoft e Amazon. Anche per questo motivo, negli ultimi vent’anni, San Francisco è diventata una delle città più costose degli Stati Uniti tanto che per affittare un appartamento con una stanza si parte da tremila dollari al mese. E’ l’effetto, forse indesiderato, della concentrazione di competenze e capitali che però ha permesso alla Silicon Valley di diventare il distretto mondiale della new economy. Un luogo della modernità, dove accadono cose che da altre parti non sono possibili.
La scelta di Dorsey è sicuramente condizionata dal distanziamento sociale e risulta in controtendenza rispetto a quello che si diceva (e faceva) fino a pochi mesi fa. Il campus di Google, ad esempio, è stato progettato per “viverci” dentro. Si pensava (e in molti continuano a pensarlo) che il processo creativo non sia legato al solo intuito e capacità della singola persona. Al contrario, più persone che popolano un ambiente piacevole e che ne facilita le interazioni, stimola creatività e performance. Ciò è vero per attività dove la creatività la fa da padrone, come l’informatica o il marketing, ma è vero anche per le attività manifatturiere, come dimostra la fabbrica della Ferrari, con i giardini che convivono con le catene robotizzate. In tutto questo c’è anche un risvolto di efficienza dei costi sul quale val la pena soffermarsi. Lo stipendio – più in generale il contratto di lavoro e quello psicologico – costituisce la porzione (limitata) di capacità ed esperienze che ognuno di noi è disposto a condividere con la propria azienda. In altri termini: poco o tanto che sia pagato, io mi impegno per quella cifra. Un ambiente (luogo e contesto) che facilita il trasferimento delle competenze e capacità, permette di superare quel limite.
Il luogo dove si lavora, quindi, conta eccome; anche in tempi di smart working, dove sembrerebbe che i luoghi perdano di importanza, a favore di strumenti tecnologici, stili di direzione e misurazione degli obiettivi.
Ormai anche il prof. De Masi ha sdoganato la sovrapposizione tra tele-lavoro e smart working che “…non sono la stessa cosa, ma facciamo finta che lo sia…”. La tematica, lo sappiamo bene, è infatti molto più complessa e tocca aspetti giuslavoristici e culturali che, fino a febbraio di quest’anno, ne ha limitato lo sviluppo. Infatti lo smart working interessava poco più del 3,5% degli italiani a fronte di quasi il 15% degli olandesi. Ora che anche tante pubbliche amministrazioni stanno assumendo posizioni simili a quelle di Dorsey – si stima che almeno un milione di impiegati della PA lavorerà da casa – si pone un problema. O meglio, un duplice problema.
Se i luoghi dello smart-working diventano le abitazioni private, si riuscirà a riprodurre una ergonomia che favorisca un comfort pari o superiore rispetto a quello degli uffici tradizionali?
Che ne sarà degli spazi lasciati liberi dagli uffici?
Sul primo interrogativo si deve partire dalla riflessione che le abitazioni, specie quelle costruite negli ultimi trent’anni, hanno una metratura dimensionata sulla tipica famiglia italiana: o sono pensati per single o coppie senza figli (tra i 45 mq e i 60 mq) oppure per una coppia con un solo figlio (75/80 mq). Come far convivere mamma, papà e figlio tutti impegnati tra smart-working e formazione a distanza sarà frutto dell’equilibrio tra la confusione e le difficoltà di collegamento alla rete web. E non c’è da dimenticare che la rete amicale e quella del lavoro spesso si sovrappone: difficile da mantenere via web. Un bel problema quindi! Sintetizzato nella riflessione di Boeri.
Sul secondo interrogativo, provo a fare un esempio pratico. Una piccola impresa che si occupa di progettazione di sistemi di sicurezza, con dieci addetti, avrà bisogno di circa 100 mq di ufficio per realizzare la propria attività.
Per affitti (o quote di ammortamento), pulizie, riscaldamento e raffrescamento, elettricità, costi tecnologici e ammortamento mobili, in una media cittadina del nord Italia, si possono ipotizzare almeno 18mila euro l’anno. Ovvero 1.800,00 euro a persona. Ma se le persone diventano 3, perché le altre 7 preferiscono lavorare da casa, il costo complessivo rimane invariato, ma il costo pro-capite balza a 6mila euro. E’ evidente l’inefficienza di quel costo. Ovvio che alle inefficienze ci saranno dei correttivi, come la riduzione degli spazi ufficio, ma lascerei questa ipotesi a prossimi approfondimenti.
Una possibile risposta a queste due inefficienze sono i remote working space appunto. Luoghi di lavoro distinti da quelli dedicati (e progettati) per la famiglia, e che al contempo permettono alle aziende di “modulare” il costo delle infrastrutture. Sono l’evoluzione dei coworking, nati tipicamente per i liberi professionisti ma stanno diventando la soluzione per le medie imprese che ristrutturano la logistica del loro personale impiegatizio. Solo in Italia ne sono presenti già più di 600, con una distruzione più massiccia nelle grandi città del nord, ma si stanno sempre più diffondendo anche nelle medie e piccole città. Il fondo sovrano cinese, ben prima del COVID, stava investendo circa 2 miliardi di euro per promuovere la nascita di nuovi spazi in tutta Europa, nella convinzione che la quota di mercato del coworking, nel settore office real estate, passi rapidamente dal 2 al 15%. Le soluzioni offerte passano dagli uffici chiusi alle postazioni in open space, con servizi aggiuntivi che vanno dalla segreteria/centralino alla formazione personalizzata. Soluzione buona per tutti quindi? Non proprio. La massima efficienza nell’utilizzo del coworking si presenta in quelle imprese in cui la creatività e la performance richiesta al proprio collaboratore è stimolata da fattori esterni ai processi aziendali. La rete commerciale ad esempio, sviluppatori software o addetti al marketing. Non è detto invece, che il responsabile amministrativo trovi nel coworking il suo habitat più produttivo. Ma è anche vero che, come dice Dorsey, ognuno di noi ha un “proprio” luogo della creatività e in fondo dell’efficienza.
In ogni modo, occasioni da cogliere. Magari da dentro un coworking.
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