Tutto ha inizio con la laurea in DAMS, in storia del cinema nello specifico. Un ambito già di per sé particolare, a cui tengo tantissimo. Questa formazione, artistica e contemporanea, mi ha regalato una bella apertura mentale: mi ha fatto capire, ad esempio, che non c’è cultura di serie A e cultura di serie B, ma che tutti i cambiamenti e i fenomeni sono da osservare prima di prendere una posizione.
Ringrazio l’apertura e il dinamismo del DAMS, a cui ho però scelto, da adulta, di affiancare uno studio che aggiungesse solidità. Ed eccomi a Trento a Filosofia.
In sostanza, c’è sempre stata arte, comunicazione, narrazione, e poi anche scrittura.
Devo ammettere una certa fatica. Avevo un’idea del lavoro diversa e ho cercato di avvicinarmi. Per questo ho incontrato la formazione: desideravo raccontare quello che mi piaceva, il cinema, e l’ho fatto all’Istituto di Design Palladio di Verona che si occupa di design e comunicazione.
Incontrata per caso, la formazione è uno dei miei lavori da 20 anni ed è stata una rivelazione.
Poter parlare di ciò che mi piace, stare in un’aula, incontrare persone e metterle in relazione con il mio mondo è stato appassionante.
Tutto è avvenuto un po’ per caso. Insegnando cinema mi sono occupata molto dei suoi aspetti narrativi e, facendolo in una scuola di design, ho vissuto e attivato una reciproca contaminazione tra i settori.
Portare il mio punto di vista in un contesto diverso è stato stimolante. Avevo capito che avere uno sguardo narrativo, letterario e anche cinematografico, poteva stimolare settori che non avevo valutato all’inizio del mio percorso.
Non mi sento una purista, preferisco le contaminazioni, e per questo ho cercato di esplorare i cambiamenti del mondo della comunicazione scoprendo in cosa potevo contribuire. La comunicazione è diventata sempre più web e ho cercato di metterci la scrittura e la narrazione. In questo ambito è importantissimo riuscire a stare dietro ai cambiamenti, senza perdere la propria peculiarità.
Da un lato una cosa anagrafica. Io ho passato tanto tempo prima che la comunicazione digitale fosse così importante, addirittura prima che il computer fosse così presente. E non sono nemmeno così vecchia!
Quello però è stato un tempo tutto guadagnato, che ha dato un particolare peso ai processi di osservazione, lettura e riflessione. E come non riconoscere l’enorme vita delle parole e della scrittura, precedente al digitale, che non possiamo ignorare? Il web viene dopo, come amo dire.
Poi mi definisco una umanista perchè al centro della comunicazione c’è l’uomo, e la tecnologia deve essere per me uno strumento umano. Anche le domande che guidano la comunicazione sono dilemmi umani eterni: perché comunico? a chi parlo? cosa voglio raccontare alle altre persone? Dopo vengono le strategie, i calcoli e i mezzi con cui comunicare.
Umanista digitale è il modo che ho scelto per definire le mie priorità e il mio modo di pensare e lavorare.
Non so se trovo una parola che lo spiega. E mi sa che capita a un sacco di noi. Penso agli ingegneri, i geometri, gli idraulici, i medici, per fare esempi, che hanno parole riconoscibili.
Molti di noi, invece, hanno bisogno di un racconto per definirsi.
Facciamo dei mestieri dinamici, pronti a cambiare nel tempo e che non stanno facilmente dentro a un’etichetta o a una parola.
Detto questo, continuo a occuparmi di formazione: da quella più accademica a quella per professionisti e per chi vuole fare il copywriter e specializzarsi nella scrittura per il web. Faccio consulenze sull’identità verbale e la scrittura per aiutare aziende e professionisti a comunicare meglio il proprio lavoro.
E poi scrivo, per il digitale e non, come libera professionista.
Se dovessi fare una sintesi? Racconto, comunico, scrivo. Convivo con le parole e spero sia una relazione a tempo indeterminato.
Io con il lavoro ho un rapporto particolare: non voglio vivere per lavorare. Sono disposta a cedere un po’ del benessere economico per avere tempo, anche per riflettere su chi sono e dove sto andando. Ché non sempre ho le idee chiare!
Il successo professionale è fare qualcosa che mi faccia stare bene. Il lavoro per me non può essere staccato dalla parte umana ed emozionale: non riesco a fare qualcosa che sia in contrapposizione con la mia vita, o ciò in cui credo.
Anche per questo nella mia quotidianità sono importanti le persone e l’impegno che metto a non dovermi mai imbarazzare per ciò che scrivo o racconto.
Questo è un mestiere che deve portare in circolo valori, bellezza, umanità e cerco di restare vicino a queste cose.
Poi conta fare bene, essere affidabile, professionale e rispettare il lavoro degli altri: stare in gruppo è la cosa che mi diverte di più. La collaborazione e l’appartenenza mi aiutano anche a superare le mie insicurezze. La sindrome dell’impostore la conosco bene.
Di prenderlo sul serio perché il digitale è parte della nostra vita, pubblica e privata, e occorrono studio e pratica.
Ma bisogna andare anche fuori dal digitale, uscirne per poterlo vedere da un’angolazione diversa. Trovare professionisti affidabili che siano in grado di avere con il digitale un atteggiamento critico. Non vivere il digitale come un mondo di tendenze, di stili e di mode a cui accodarsi, perché non è così che si costruisce il proprio approccio o la propria voce.
E anche andare in libreria, al cinema, nei boschi e stare molto nelle cose reali. Il rischio è che il digitale ci connetta separandoci, lasciandoci ognuno nel nostro posto, distante da tutto.
Nel digitale portiamo idee nuove solo se andiamo a prendercele nella vita reale.