Tanti sono gli europei che, secondo un report della McKinsey, rischiano il lavoro a causa della pandemia COVID-19. Sono perlopiù giovani non laureati impiegati nella ristorazione e nell’ospitalità, addetti ai servizi culturali e di intrattenimento o impiegati nei servizi del retail tradizionali. Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, ovviamente, le nazioni più interessate. Al contempo sono 26 milioni gli americani che dall’inizio del lockdown hanno chiesto il sussidio di disoccupazione settimanale (il WBA) e quasi sette milioni sono gli italiani in cassa integrazione; per una parte di questi lavoratori le previsioni non sono rosee, perché “il lavoro” è una conseguenza dell’intraprendere (ebbene sì…) e molte imprese chiuderanno, travolte, nel breve dalla crisi dei consumi e nel medio termine dall’incapacità di adattarsi al cambiamento. In Italia in particolare, il rischio di un ritorno a tassi di disoccupazione superiori al 15% è acutizzato dalle piccole dimensioni della stragrande maggioranza delle imprese dove circa l’88% ha meno di 5 dipendenti. Non è un caso che le misure di sostegno riguardino, in questa prima fase, le microimprese, visto che sono quelle che nella ripartenza avranno maggiori difficoltà nell’affrontare la riprogettazione della produzione, sia per la carenza di disponibilità finanziarie nel sostenere gli investimenti che di capacità – e cultura – organizzativa nell’affrontare le trasformazioni. Ma si fa sempre in tempo a cambiare!
Ormai anche il prof. De Masi ha sdoganato la sovrapposizione tra tele-lavoro e smart working che “…non sono la stessa cosa, ma facciamo finta che lo sia…”. Ovviamente non si adatta a ogni lavoro, ma si può tranquillamente dire che tutti quelli impiegatizi e che non prevedono un contatto dal vivo con il cliente si prestano molto bene. Impossibile per un parrucchiere o un ristoratore, ma se sono un addetto al customer care del mercato Europa, perchè mai dovrei spostarmi tutti i giorni tra Bergamo e Milano – assumendomene costi, tempi e rischi – se poi mi siedo ad una scrivania dietro ad un computer a rispondere a e-mail o al telefono?
Fino al febbraio, lo smart working è stato un modello che ha interessato poco più del 3,5% degli italiani a fronte di quasi il 15% degli olandesi. Tra le ragioni, che fino ad ora, ne hanno limitato l’affermazione ne segnalo alcune:
Le prime due sono da ricondurre alla funzione che il lavoro ha assunto nella costruzione dell’identità individuale, anche e soprattutto nell’era post-industriale, mentre le ultime due sono un problema di cultura organizzativa e manageriale. Sulla infrastrutturazione tecnologica cos’altro si può dire, se non che siamo indietro? Forse il 5G darà una mano a colmare il gap con gli altri Paesi europei, ma anche tra centro e periferia. Ciò che è certo è che la pandemia ha sparigliato le carte. Gli istituti di ricerca e gli osservatori che si occupano di smart-working stimano che almeno la metà di coloro che, gioco forza, hanno sperimentato questa modalità in questo periodo, vorrebbero continuare. Oltre a questo aspetto, molte aziende, specie le più dimensionate stanno “pesando” i costi immobiliari, mettendoli a confronto con i costi di delocalizzazione di buona parte dei propri dipendenti e collaboratori contando anche sulla presenza, ormai capillare, di spazi di coworking. Questi ultimi sono una soluzione che risponde alle prime tre delle limitazioni sopra-elencate:
Come si accennava prima, il vero problema è quindi passare da uno stile di direzione basato sul controllo ad uno basato sulla delega. Non mi soffermo sugli aspetti di psicologia del lavoro e behavior, ma faccio un accenno ad un aspetto di sottofondo (neanche poi tanto sommerso), che è il metro della retribuzione. Fin dagli albori della specializzazione del lavoro – Adam Smith la descriveva nel famoso saggio La fabbrica degli spilli nel 1776 – i fattori che compongono la retribuzione di impiegati e operai sono le ore lavorate moltiplicate ad una cifra derivante dal mix tra complessità della mansione e esperienza accumulata, sintetizzato nel livello contrattuale. Per il management invece i parametri dipendono maggiormente dalla responsabilità assunta e dai risultati conseguiti e molto meno dalle ore dedicate al lavoro. Il passaggio da controllo a delega dovrà trovare nuove metriche nel quantificare impegno e risultati (attesi e conseguiti) senza però cascare nella trappola del lavoro a risultato o della retribuzione a cottimo. Problema non di poco conto, specie in Italia dove il livello di produttività (i ricavi per addetto) sono, da molti anni, sotto la media europea. Vedremo gli sviluppi.
Tornando al breve periodo, in questa prima fase di ripartenza – che può valere nei primi sei mesi/otto mesi – il principio della delega, dell’analisi. dei risultati e una diversa regolazione delle gerarchie (team “mobili” e organizzazione a rete), diverranno indispensabili per riallineare la produzione, che dovrà cambiare, in un contesto completamente mutato in poche settimane. Sempre la McKinsey consiglia di modificare il ciclo plan-do-check-act in forecast-act-pause-check, dando ampio spazio alla comunicazione tra i diversi team al lavoro, perché azzeccare le previsioni non potrà più contare sui deja-vu. In questa assetto organizzativo la leadership dovrà tener conto, soprattutto nella comunicazione, del clima di incertezza che attanaglia un po’ tutti. Parlare con cauto-ottimismo potrebbe essere il più indicato.
Quindi, con cautela e ottimismo, insieme ce la faremo
In questa newsletter vogliamo parlare di un nuovo approccio al lavoro. Non solo smart e digitale ma anche, e soprattutto, nuovi modi di organizzare e gestire attività e flussi, alla ricerca di maggior benessere e soddisfazione di clienti, lavoratori e organizzazioni.
Ogni settimana riceverai un articolo di approfondimento.