LUDWIG WITTGENSTEIN SCRIVEVA: “SARA’ RIVOLUZIONARIO COLUI CHE POTRA’ RIVOLUZIONARE SE STESSO”
Ci siamo lasciati con una sfida ambiziosa: mettere alla prova i dispositivi di incubazione sociale, al fine di
comprendere se essi possano costituire parte fondamentale degli strumenti della rivoluzione che si vuole
compiere nel Terzo settore.
Per farlo, ci avvaliamo di una già citata ricerca condotta nel 2017.
Riprendiamo in mano le due fazioni che si sono dibattute sulla capacità del Terzo settore di essere
strumento di innovazione, approfondendo per ora quanto esposto dai sostenitori della teoria del second
mover. Questo partito marcia apertamente contro l’idea che le organizzazioni non profit possano essere la
leva capace di stimolare la modernizzazione del welfare. Gli studiosi sono mossi da argomentazioni che
pongono le basi su specifiche caratteristiche di queste organizzazioni. Esse sono: a. La scarsa attenzione che
le organizzazioni non profit tendono a porre su aspetti organizzativi e gestionali, concentrandosi piuttosto
su elementi valoriali; b. la loro scarsa propensione all’imprenditorialità; c. la mancata condivisione dell’idea
moderna di cittadinanza sociale, per mantenere invece un’attenzione selettiva verso particolari categorie,
quelle dei “bisognosi”.
Si tratta di tesi facilmente condivisibili, e che infatti hanno sicuramente favorito a forgiare la concezione che
in molti hanno delle organizzazioni del Terzo settore. Quando però si parla nello specifico dei dispositivi di
incubazione sociale, queste tesi risultano meno solide. Consideriamo allora i casi in cui gli incubatori sono
promossi da organizzazioni non profit (nella ricerca si dichiarano non profit 8 promotori su 13).
a. Quanto emerge è che in queste attività vive una doppia anima, sia imprenditoriale che legata ad
aspetti valoriali, e difficilmente si riesce a cogliere quale dei due aspetti sia il preponderante.
b. Se generalmente gli attori del for profit hanno una maggiore propensione all’imprenditorialità, va
anche detto che sotto alcuni aspetti sono identici, mentre su altri sono addirittura più “avanti”:
nell’accettazione del rischio, gli incubatori del Terzo settore si percepiscono maggiormente capaci di
diffondere questo tipo di atteggiamento imprenditoriale.
c. Rispetto alla terza argomentazione del second mover, sarebbe determinante ragionare sui criteri di
accesso alle attività proposte dagli incubatori. Non ci si basa su specifiche utenze, ma perlopiù su
caratteristiche dell’idea e del progetto presentato, pertanto un criterio pienamente trasversale ed
“egualitario”.
Dalla parte opposta della barricata alcuni studiosi hanno tessuto le lodi delle organizzazioni non profit, in
particolare in riferimento a 1. efficienza, 2. orientamento all’innovazione, 3. capacità di diffondere
democrazia e promozione della cittadinanza.
Da quanto emerso dalla ricerca, i casi studiati risultano essere parzialmente efficienti, anche se manifestano
un forte desiderio di un cambiamento in termini di fonti di finanziamento. Sotto questo primo punto non è
quindi possibile aderire pienamente alla tesi espressa dagli studiosi. La seconda argomentazione invece ci
trova molto più determinati, grazie ad alcune conferme date dalla ricerca del 2017. I dispositivi di
incubazione sociale aumentano infatti la capacità del Terzo settore di leggere i bisogni del territorio, fattore
determinante quando si vuole diventare motore dell’innovazione sociale. Un altro tassello importante, e
forse anche identificativo di questi dispositivi, è la loro capacità di rispondere al “bisogno di riformare la
società nella direzione di un’arena maggiormente partecipativa, nella quale empowerment e formazione
sono fonti e risultati del benessere delle persone” (Bureau of European Policy Advisers).
A fronte di quanto messo in risalto dalla ricerca, si può affermare che gli incubatori sociali rappresentano
un’adeguata risposta alle esigenze di innovazione del Terzo settore. Risulta evidente che essi sono in linea
con l’impronta che con la Riforma si vuole dare al Terzo settore, sotto diversi aspetti.
Come già messo in luce in passato, parlando di dispositivi di incubazione sociale, quello di cui trattiamo è di
fatto l’incubazione di nuovi sistemi di pensiero. Qui le azioni sono finalizzate alla ricerca di risposte e
strategie nuove per reagire alle esigenze di trasformazione che le circondano. Lo stimolo continuo al
ragionamento aiuta a non cadere negli abituali schemi di pensiero, ma anzi a mettere sempre in
discussione quanto fatto, detto, pensato.
Fin qui si è dato risalto alla distinzione tra organizzazioni profit e non, cosa che andremo a perdere presto
vista l’espressa esigenza del Terzo settore di una progressiva ibridazione con il mondo del for profit. Questo
è un passo che gli incubatori sociali aiutano a compiere. Ad oggi, la distinzione al loro interno non è così
netta, in quanto gli incubatori sociali for profit e non profit di fatto non attuano comportamenti troppo
dissimili, ma anzi lavorano spesso con obiettivi comuni. Questo modo di lavorare in parallelo permette di
acquisire una nuova capacità di interloquire con gli attori del for profit, trovando dei punti comuni sui
quali basare la propria intesa.
I programmi di incubazione permettono inoltre la diffusione di una cultura imprenditoriale all’interno del
Terzo settore. È per loro genetica: essendo promotori essi stessi di attività o di iniziative di stampo
imprenditoriale, sono stati sviluppati come strutture che vigilano in maniera attenta e puntuale anche
sull’aspetto manageriale, fatto che prima trovavamo raramente all’interno del Terzo settore.
Un tassello chiave dell’apporto degli incubatori sociali nel Terzo settore è costituito poi dalla loro capacità
di tessere reti. Nella ricerca di riferimento viene evidenziato come siano stati molti gli attori che abbiano
voluto apportare un proprio contributo in fase di sviluppo (e quindi a favore) di queste strutture.
Infine per comprendere davvero cosa nasce attraverso gli incubatori è necessario andare oltre al prodotto
materiale a cui danno vita. La rivoluzione, sottesa ma impattante, è data dal fine lavoro di empowerment
compiuto da questi dispositivi. Le persone che affrontano questi percorsi hanno la possibilità di acquisire
soft e hard skill che non avrebbero imparato mediante percorsi di formazione classici, che sono risultati poi
utili nella vita professionale a prescindere dal successo o insuccesso del progetto incubato. Questi individui
hanno acquisito strumenti che li hanno resi artefici in prima persona dei benefici che ne hanno tratto, e
che, in seguito, sono stati spesi nell’ecosistema che li circonda.
A fronte di quanto detto fino ad ora, penso che sia molto importante trovare canali per sviluppare questi
meccanismi. Essi sono strumenti essenziali capaci di generare innovazione e impatto sociale positivo in
misura di gran lunga maggiore al numero di start-up attivate. Abbiamo a che fare con dispositivi che,
piccoli o grandi che siano, potranno davvero diventare combattenti partecipi e attivi nella rivoluzione del
Terzo settore.
Marianna Castellan – castellanmarianna@gmail.com