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Viaggio alla scoperta del Terzo Settore

DA DOVE SI È PARTITI E VERSO DOVE SI ANDRÀ

Nello scorso articolo si è parlato degli incubatori sociali a servizio del Terzo Settore, enti che per la maggior parte appartengono al mondo non profit. Con l’obiettivo di indagare quale apporto questi istituti siano riusciti a dare al suo interno, è utile riflettere su cosa il Terzo settore effettivamente sia e come si sia evoluto fino ad arrivare alla recente Riforma.

Già il fatto che si parli di un Terzo settore dovrebbe darci da pensare. Come facilmente possiamo intuire il primo settore è riferito al pubblico e il secondo al mercato. Il Terzo è dunque il “disavanzo”. Ma c’è da chiedersi se sia veramente lecito considerarlo così. Dopo anni di studi in materia, non sono ancora così serena nel definire questo concetto. A questa esigenza di chiarimento ha voluto rispondere la recente Riforma del terzo settore. Ma la Riforma comprensibilmente non è nata in reazione ai miei dubbi, i passi compiuti sono stati altri. Vediamoli insieme.

In Italia il Terzo settore nasce nel momento in cui alcuni gruppi, prevalentemente di origine cattolica, iniziano a occuparsi di animazione agli oratori e assistenza a senza fissa dimora. Sono le prime forme di organizzazione privata che interviene in ambiti privi di qualsivoglia gestione. Negli anni Sessanta si attiva un cambiamento di pensiero: alcuni movimenti cominciano a mettere in discussione il concetto stesso di diritti sociali. Allo scopo sociale, questi gruppi connettono una nuova finalità: quella politica. Iniziano a prendere coscienza e a manifestare ad alta voce la mancanza di progettazione per determinate categorie di persone. Lo stesso periodo vede la nascita di gruppi, questa volta laici, che concretizzano le prime iniziative di contrasto all’esclusione sociale tradizionale. Si tratta di una rivoluzione di pensiero che porta a una nuova concezione di individuo e di essere umano da parte dello stato stesso. Da lì in poi non risultano più accettabili le istituzioni totali: si combatte per la chiusura di manicomi, orfanotrofi e così via.

Negli anni Settanta e Ottanta buona parte di queste organizzazioni diventano cooperative. È la risposta alla necessità di trovare una forma compartecipata e che permetta di fornire in modo continuativo dei servizi sul piano sociale e assistenziale. Più avanti le organizzazioni si consolidano e si riscontra una forte diffusione di fornitura di servizi comuni del welfare locale.

Nel decennio successivo si individua un importante cambiamento di modello: da un sistema accentrato a carenza di offerta, a uno localizzato a offerta articolata. Il passaggio porta a delle organizzazioni più professionalizzate e dotate di una struttura economica e produttiva con basi nelle politiche di welfare.

A fine anni Novanta la spinta pubblica tende a indebolirsi. Cambiano anche importanti meccanismi di gestione della relazione con il Terzo settore: alla convenzione diretta viene affiancato l’affidamento di gara, che comporta ovviamente l’aumento dello spirito competitivo fra le organizzazioni.

Gli anni Duemila fungono da momento di legittimazione dei ruoli, stabilendo che la programmazione e la valutazione dei servizi sociali resti in mano al pubblico, mentre il Terzo settore si occupi della fornitura universalistica degli stessi. È a metà decennio che i primi nodi vengono al pettine. Una serie di cambiamenti porta a una fase di crisi. Tutto ciò richiede che la legislazione in materia di Terzo settore vada ridefinita: emergono, in altre parole, nuovi bisogni dovuti alle mutate condizioni socio-economiche, e, al medesimo tempo, la strutturazione stessa delle organizzazioni si trasforma.

La necessità di una sua ridefinizione è quindi un’esigenza presente da tempo, che torna in auge in particolare con la crisi del 2008. I temi scottanti sono: la necessità di una crescita economica, e, a sostegno della stessa, una forte coesione sociale, che sia pronta a tutelare anche i soggetti più deboli; all’interno dei servizi sociali vi è inoltre il bisogno di aprire il mercato a una maggiore privatizzazione. Di fronte a tutte queste esigenze si creano due parti frapposte tra chi vede il Terzo settore come il luogo adatto a rispondere alle necessità di innovazione e chi invece non lo considera per nulla idoneo. Sinteticamente gli schieramenti sono due. Il primo gruppo (che si rifà alla Teoria del second mover) pensa il Terzo settore come in grado di contribuire alla modernizzazione del welfare solo in maniera marginale e soprattutto grazie a spinte esogene. In particolare i punti deboli che gli autori leggono in questo settore sono: il peso conferito agli aspetti valoriali piuttosto che a quelli organizzativi e gestionali, la scarsa propensione all’imprenditorialità, la mancanza di condivisione della concezione moderna di cittadinanza sociale (che lo porta a proporre servizi in base a specifiche discriminanti e quindi poco equi). Dall’altra parte si osserva uno schieramento che individua l’integrazione dei servizi pubblici con quelli offerti dal Terzo settore come l’unica possibile soluzione per risolvere i nuovi bisogni del sistema di welfare. Paradossalmente i punti che qui vengono individuati come a favore del Terzo settore sono: la sua efficienza, l’orientamento all’innovazione, i valori condivisi di democrazia e promozione della cittadinanza.

Con la Riforma si vuole scommettere sulla sua capacità di innovazione. L’obiettivo è di dare impulso alla crescita di un settore trasparente, efficace e radicato nella comunità. Il 6 giugno 2016 viene approvata la legge 106/16 “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”. I pilastri su cui essa si basa sono variegati. Tra gli altri, significativa è quindi la definizione degli ETS, Enti del Terzo settore. La Riforma fa sì che per la loro definizione ci si basi maggiormente sulle azioni che vengono perpetrate piuttosto che sulla loro forma giuridica. Ovviamente così facendo ci si orienta verso una determinazione meno netta tra organizzazioni non profit e profit (questi possono entrarne a far parte con il vincolo di svolgere “attività di interesse generale impiegando gli utili in maniera prioritaria”).

Un altro punto fondamentale è la promozione e facilitazione del reperimento di risorse economiche e materiali. Rimarchiamo l’introduzione ma anche la riorganizzazione di numerosi strumenti: la possibilità di adottare forme di parziale remunerazione del capitale sociale investito da parte delle imprese sociali, la rielaborazione del 5×1000, il Fondo di Sostegno e la Fondazione Italiana Sociale, il tentativo di promuovere l’assegnazione privilegiata di immobili confiscati alle organizzazioni del Terzo settore, e molti altri.

Centrale nella Riforma è la volontà di spingere gli enti del Terzo settore verso una maggiore ibridazione con il mondo del for profit, e, al contempo, la stretta necessità di lavorare sull’acquisizione di tutta una serie di competenze capaci di rinforzarne la cultura manageriale e, quindi, sulla loro capacità di autosostenersi.

La sua efficacia sarà dichiarabile solo nel lungo periodo. È però già possibile analizzare se il settore sia fin da ora in possesso di alcuni attrezzi che gli consentano di essere un terreno fertile per la buona maturazione del seme piantato con la Riforma. Nel prossimo articolo verranno messi alla prova i dispositivi di incubazione sociale, al fine di comprendere se essi, all’interno della cornice disegnata, possano costituire parte fondamentale degli strumenti a servizio della rivoluzione che si vuole compiere nel Terzo settore.

Marianna Castellan – castellanmarianna@gmail.com

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